Jules Massenet: opere e memorie tutte francesi.

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di Salvatore Margarone

Compositore francese Jules Massenet nacque a Montaud, Saint-Étienne, 1842 e morì a Parigi nel 1912.

Iniziò gli studi musicali sotto la guida della madre; a nove anni fu ammesso al Conservatorio di Parigi, dove fu allievo di Laurent per il Pianoforte, Reber per l’Armonia e A. Thomas per la Composizione.

Premiato diverse volte durante i saggi finali del conservatorio, nel 1863 vinse il Prix de Rome con la cantata David Rizzio. Durante il soggiorno a Villa Medici compose anche una raccolta di liriche, Poéme d’avril, un Requiem e diversa musica sinfonica, tra cui Scènes pittoresques e le Scènes napolitanies.

Nel 1867 compose anche un’opera comica in un atto, La grand’tante, che rivelò il suo spiccato talento per il teatro unito a una facile e spontanea vena melodica.

Da allora l’attività compositiva di Massenet divenne intensa non solo nell’opera, ma anche nella musica sinfonica, da camera e sacra.

Nel 1873 presentò al Concerts Colonne un dramma sacro, Marie-Magdaleine per soli, coro e orchestra e nello stesso anno componeva l’opera Don César de Bazan, a cui seguirono anche, ed ebbero particolare successo, Le roi de Lahore (1877) e Hérodiade (1881).

Maie Mgdalene Massenet

Tre anni dopo, l’Opéra-Comique metteva in scena Manon (19 gennaio 1884), destinata a divenire una delle opere francesi più popolari dopo Carmen di Bizet: i caratteri scenico-musicali del verismo bizetiano si amalgamava benissimo con Massenet, con un’impronta del tutto personale sia nel taglio lirico-drammatico dei personaggi, sia nell’incisiva vocalità e nella strumentazione raffinata e pittoresca.

Manon Massenet

Il soggetto di Manon, da Prévost, rispondeva pienamente a quel tipo di teatro sentimentale e irruento nello stesso tempo,che il pubblico di allora richiedeva. Per le stesse ragioni, la riduzione del Werther di Goethe permise a Massenet di rinnovare, nel 1882, al teatro di corte di Vienna, il successo di Manon anche nei paesi di lingua tedesca. La storia di Manon fu ripresa da Massenet nel delizioso atto unico Le portrait de Manon (1894), che rievoca la vecchiaia di Des Grieux attraverso lo specchio deformante delle celebri melodie della Manon maggiore.

Werther Massenet

Chiamato a ricoprire la cattedra di Composizione al conservatorio nel 1878), Massenet divenne anche direttore dell’Institut, ma rinunciò ad entrambe le cariche nel 1896 per dedicarsi interamente alla composizione, raggiunta ormai una fama internazionale.

A parte alcune recenti “riscoperte”, sono rimaste oggi in repertorio soltanto Manon e Werther; vanno ricordate tuttavia fra le sue opere, in tutto una trentina, Le Cid (1885), Esclarmonde (1898), Thais (1894), Cendrillon (1899), Le jongleur de Notre-Dame (1902) e Don Quichotte (1910), le quali contengono pagine di stupenda ambientazione lirico-drammatica e di solida costruzione musicale.

                              Thais         Cendrillon massenet

Fra le sue composizioni da camera vanno menzionate le delicatissime liriche (circa 200) per canto e pianoforte.

Nel 1912 furono pubblicate le sue memorie, Mes souvenirs, documento molto importante per la comprensione della cultura operistica francese di fine secolo.

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A differenza di altri veristi, Massenet fu sempre alieno dalla ricerca di facili effetti; cercò invece di tradurre con sensibilità gli aspetti più intimi della società borghese del tempo e della cultura letteraria e artistica che la rispecchiava.

Trovatore all’Opera Bastille de Paris: una Leonora mancata

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Di Salvatore Margarone e Federico Scatamburlo

 

L’11 febbraio 2016, alle ore 19.30 è andato in scena l’attesissimo Trovatore, di G.Verdi, presso il moderno teatro dell’Opera Bastille di Paris, gremito di spettatori.

Pesante però l’assenza per indisposizione del soprano Anna Netrebko che doveva interpretare Leonora, tanto da far spontaneamente scoppiare un boato in sala all’annuncio dello speaker.

Il pubblico presente è rimasto ulteriormente deluso dalla pessima performance della inadeguata sostituta, la soprano cinese Hui He. Quest’ultima infatti, già nella prima aria ha mancato nettamente un acuto (peraltro non di particolare difficoltà), come già accaduto in una precedente recita, e ha poi proseguito l’opera con estrema fatica, evidenti errori ed esecuzioni appena accettabili. Poteva essere una serata vincente considerata la combinazione del cast con le splendide musiche di G. Verdi, ma così non è stato.

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Discutibile anche la scenografia di Alfons Flores, che ha  trasportato quella che doveva essere in teoria la Spagna del XV secolo al periodo della prima Guerra Mondiale, dove troviamo gli interpreti  in abiti  (creati da Lluc Castels) quasi dei giorni nostri, grazie ai quali il racconto del libretto di Cammarano ne viene parzialmente snaturato. Semplice e minimalista la regia di Àlex Ollé, che ha lasciato quasi interamente ai protagonisti il compito di riempire la scena, arrivando a volte a nascondere il coro all’interno della scenografia stessa.

Ambienti oscuri, tenebrosi, volti probabilmente ad enfatizzare il dramma che vivono i protagonisti: arrivano allo spettatore soprattutto immagini cimiteriali, fosse aperte dalle quali emergono fiamme (dell’inferno?) e luci visionarie (spiriti?) riprodotte da maschere antigas; lapidi che improvvisamente si innalzano come colonne per delimitare spazi nei vari quadri degli atti (con cavi che spesso mettono in evidente difficoltà i movimenti degli artisti).  Apprezzabile il tentativo di raddoppiare la scena con un fondale a specchio: peccato che il continuo movimento dello stesso provocasse un certo malessere a chi guardava, oltre ad avere per quasi tutto il tempo l’immagine riflessa del direttore d’orchestra esattamente al centro della scena.

I gitani dell’epoca fiamminga sono invece trasformati in emigranti (o fuggitivi?) con tanto di valigia al seguito, e il pugnale che Azucena consegna a Manrico chiedendo vendetta, diventa nel quadro successivo una pistola (siamo in effetti nella prima guerra mondiale…), creando così una mancanza di fluidità nella narrazione che disorienta non poco lo spettatore.

In queste disastrose fondamenta, lodevoli di nota sono invece due dei protagonisti dell’opera: Il Conte di Luna interpretato magnificamente da Ludovic Tézier e Azucena interpretata da Ekaterina Semenchuk.

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Ludovic Tézier, dotato di un timbro vocale caldo, con dizione impeccabile, prestanza fisica, perfettamente calato nel personaggio del Conte, ha dimostrato eleganza nel fraseggio, legato di fiato, colori sfaccettati mai banali e adeguati ai momenti narrativi, che ha sfoggiato con naturalezza e apparentemente senza alcuno sforzo. Non nuovo in questo ruolo, ha saputo destreggiarsi in una delle partiture Verdiane più ardite per tessitura, in quanto in alcuni punti necessita di un timbro quasi tenorile, oltre alle immancabili note gravi, eseguite con maestria.

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Ekaterina Semenchuk, splendida Azucena come poche ad oggi, per vocalità e drammaticità, ha saputo esprimere nelle sue arie l’intensità adeguata al ruolo, grazie a una voce duttile ricca di sfavillanti acuti e di potentissima voce di petto, mai sgraziata ma incisiva, supportata da un’ottima dizione sapientemente utilizzata.

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Deludente invece la performance di Marcelo Álvarez nei panni di Manrico: pur essendo dotato di estensione vocale, bel timbro e squillo, la mancanza del legato di fiato ha fatto percepire all’ascoltatore una eccessiva spinta diaframmatica dei suoni tanto da rendere frammentate le frasi musicali nelle arie del suo personaggio. Eccessiva anche l’enfasi interpretativa con la quale Álvarez ha cantato per tutta l’opera, rendendo in alcuni momenti il suo Manrico molto poco credibile.

Una nota di merito anche all’unico italiano nel cast, Roberto Tagliavini,  nel ruolo di Ferrando, capitano delle guardie che, sopratutto all’inizio dell’opera, ha sfoggiato la sua bella voce ricca di armonici, bel legato di fiato e bel canto tutto italiano.

Il resto del cast ha visto protagonisti Marlon Lebegue nel ruolo di Inés, Oleksiy Palchykov nel ruolo di Ruiz, Constantin Ghircau nel ruolo del vecchio zingaro e Cyrille Lovighi nel ruolo di un messo.

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L’orchestra e il coro dell’Opera National de Paris, diretti da Daniele Callegari, hanno dimostrato la professionalità che li contraddistingue. La sapiente bacchetta del direttore ha dato un accento iniziale brillante, durato per tutta l’opera (anche se con tempi eccessivamente veloci), che ha fatto assaporare tutto d’un fiato i quattro atti accorpati in soli due tempi.

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Trovatore, capolavoro del melodramma italiano, viene dunque un pò stravolto in questo ambito parigino: la passione di queste figure quasi astratte, che verranno poi distrutte dall’unica custode del segreto che li ucciderà tutti, ha percorso nuove strade interpretative. Sarebbero piaciute all’incontenibile Verdi?

FOTO © Charles Duprat/OnP

 

La locandina dell’ 11 Febbraio 2016

Manrico Marcelo Álvarez
Leonora Hui He
Il Conte di Luna Ludovic Tézier
Azucena Ekaterina Semenchuk
Ferrando Roberto Tagliavini
Ines Marion Lebègue
Ruiz Oleksiy Palchykov
Un vecchio zingaro Constantin Ghircau
Un messo Cyrille Lovighi
Direttore Daniele Callegari
Regia Àlex Ollé
Collaboratice alla regia Valentina Carrasco
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castels
Luci Urs Schönebaum

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Franz Schubert: il “Biedermeier” della musica a cavallo tra due secoli.

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di Salvatore Margarone

Viennese, ha una breve vita, come tanti compositori romantici: nasce nel 1797 e muore a soli trentun anni, nel 1828. Figlio di un maestro elementare, professione a quel tempo di notevole rilievo, compì i suoi studi musicali nel più prestigioso collegio viennese, sotto la guida di Antonio Salieri. La sua vita, la sua attività di compositore, la sua posizione sociale presentano i contrasti tipici del periodo romantico: dopo aver intrapreso la professione paterna la abbandona per la ricerca di una vita libera e tutta dedita alla musica; solo occasionalmente ottiene degli incarichi che gli garantiscono la sopravvivenza (è maestro di pianoforte delle giovani figlie del conte Esterhazy, e per esse scrive delle splendide pagine pianistiche a quattro mani); molto più spesso vive ospite di amici attori, poeti, artisti per i quali compone delle musiche intime, delicate, a volte leggere, che animano le famose “schubertiadi” (serate dedicate a Schubert) e sposano le caratteristiche stilistiche del Biedermeier. Questa leggerezza, questo apparente disimpegno sono però intimamente connessi con l’amara consapevolezza di non appartenere al mondo, di non poter desiderare la felicità, perché “in questo mondo miserabile che dovremo farcene noi della felicità, quando l’infelicità è l’unica sferza che ci rimane?”, citando le sue stesse parole.

In relazione al mondo e alla vita, Schubert non può definirsi un vinto come Mozart, che fu deluso nelle sue aspirazioni al successo e alla libera professione, né un vincitore nonostante tutte le avversità, come Beethoven. La definizione che maggiormente lo inquadra è quella del “viandante”: Schubert vide tutto il male e il dolore della vita, si sentì inadeguato a viverla con quella libertà individuale che desiderò fortemente, concepì un pessimismo esistenziale che non trovò una collocazione come in Leopardi o in Schopenhauer, entrambi suoi contemporanei.

La sua musica esprime tutto ciò, spesso in modo lieve, caratterizzato da una grande ricchezza e melodiosità di temi racchiusi in piccole forme: serenate, improvvisi, fantasie, composizioni pianistiche brevi e prive di quella grande elaborazione che caratterizza i compositori romantici. A torto, però, per lungo tempo egli è stato considerato un compositore eccelso solo nelle piccole forme musicali, ridotto a primeggiare in una dimensione intima e salottiera: se è vero che la dimensione intima fu privilegiata dalla sua sensibilità, che tese ad esprimere per gli amici e non per tutti gli uomini, è altrettanto vero che la sua solida formazione classica, rivisitata in chiave romantica, gli consentì di dare un importantissimo e originale contributo alla storia della sinfonia.

La forma sonata non vide più la contrapposizione fra due soli temi, ma iniziò, proprio con Schubert, la compresenza di tre o più temi, il dualismo fra tonica e dominante divenne sempre più spesso un dualismo fra tonica e modale, assumendo i contorni più sfumati dell’oscillazione fra modo maggiore e modo minore e creando un particolare coinvolgimento emotivo, meno forte e più melanconico, nell’ascoltatore. Tutto questo avvenne in una fase compositiva quasi mai allietata dal successo di una pubblica esecuzione: è interessante sapere che, fra le sue sinfonie, la n. 8 in Si min., detta “Incompiuta”, celeberrima, fu eseguita per la prima volta quarant’anni dopo la morte dell’autore, e la n. 9, detta “La Grande”, fu trovata, dopo la sua morte, fra le sue carte da Schumann.

Un discorso a parte meritano gli oltre seicento Lieder per voce e pianoforte, che mettono in musica liriche dei massimi poeti tedeschi, da Schiller e Goethe, Novalis, Heine, ma anche di minori, quali Schobart , autore del celebre Die Forelle, (La trota) e Müller, autore del ciclo Die Schöne Müllerin (La bella mugnaia). Il Lied, dopo una storia che ha le sue origini in forma monodica nel Medioevo e divenne poi, nel Quattrocento, una forma polifonica, presenta già nell’epoca classica delle forme sia corali che solistiche con Mozart e Beethoven, ma solo con Schubert acquisisce una vitalità e una fisionomia che lo rende un genere romantico per eccellenza; dopo Schubert comporranno per questo genere soprattutto Schumann, Mendelssohn, Brahms, Wolf, Mahler, Richard Strauss, Schönberg, sia in forma solistica che in forma corale.

Tra le forme utilizzate troviamo quella strofica (la melodia si ripete con parole diverse), quella giustapposta, (diverse sezioni melodiche si susseguono), la forma Durchcomponiert, o ininterrotta, tutta originale; alcuni sono brevissimi, altri complessi, altri lievi pagine liriche (Heidenröslein, La Rosellina della landa), altri ancora hanno grande intensità drammatica (si pensi a Erlkönig, Il re degli ontani, scritto a 17 anni, su versi di Goethe). Da ricordare, fra i cicli: Die Schöne Müllerin (La bella mugnaia), Winterreise (Viaggio d’inverno),  Schwanengesang (Il canto del cigno, denominato così dopo la morte dell’autore).

Infine, l’ascoltatore con un orecchio più accorto può riconoscere, in alcune splendide composizioni cameristiche, melodie che richiamano alcuni celebri Lieder che Schubert ha sapientemente utilizzato come tema melodico per nuove partiture: è il caso del quintetto Die Forelle, per quartetto d’archi e pianoforte, e del Der Tod und das Mädchen (La morte e la fanciulla), che costituisce il tema del secondo movimento dell’omonimo quartetto per archi in Re minore.

Il compositore non si dedicò esclusivamente alla produzione liederistica, ma scrisse anche molta musica da camera: trii, quartetti e quintetti,  sonate per pianoforte, sonate per violino e pianoforte; e ancora messe, magnificat ed opere liriche (tra le quali si ricordano: Gli amici di Salamanca, Claudine von Villa Bella, I gemelli, Alfonso ed Estrella, I Congiurati, Fierrabras e Rosamunde).

Considerata la sua breve vita terrena, Schubert fu pertanto notevolmente prolifico, e tutt’oggi è considerato autore di riferimento nel passaggio tra due secoli importanti della storia della musica, il Classicismo e il Romanticismo, fecondissime epoche che hanno prodotto diamanti ancora lucenti e sfavillanti nel panorama musicale odierno, nel quale Schubert continua a brillare di luce propria.

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La Poesia e le Arti sorelle

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di  Nuccia Miroddi

Le arti non conoscono barriere, steccati, non sono monadi chiuse, ma presentano affinità, corrispondenze. Diverso è lo strumento della comunicazione: parola-poesia, suono-musica, colore – pittura, movimento-danza, ma comune è l’oggetto: reale, fantastico, emotivo, affettivo, storico, sociale; comune l’impulso creativo del sentire; uguali le finalità: addolcire, dirozzare gli animi, educare ai buoni valori, consolare, denunciare, aggregare, in particolare nei momenti di crisi, quando gli egoismi e i particolarismi tendono a prevalere.

Le voci sono strumenti per suonare i versi, che delineano un quadro reale-illusorio, immagini che vogliono scandagliare il mistero, i sogni, le angosce dell’uomo. Pittori scelgono la poesia per dipingere le loro visioni Poeti scelgono la pittura per comunicare le loro emozioni Musicisti scelgono la poesia per cantare sensazioni.

Il testo poetico dipinge e canta, crea immagini e produce suoni. Ha una musicalità interna affidata a figure di suono, a rime, assonanze, consonanze. La sinestesia, caratterizzata dall’accostamento di termini che coinvolgono sensi diversi, è la figura retorica più rappresentativa dell’operare artistico e con efficacia esprime la relazione tra i linguaggi dell’arte, caratterizzante della poesia del XX secolo.

Il famoso “urlo nero” quasimodiano implica il coinvolgimento dell’udito-urlo e della vista-nero, quindi parola-immagine, musica-pittura. Il concetto delle arti- sorelle, l’interesse per la forza espressiva delle immagini e per la relazione tra parola-immagine sono molto antichi. Noto è l’aforisma di Simonide di Ceo, poeta greco del VI secolo a.C., “la pittura è poesia e la poesia è pittura parlante”. Orazio, poeta augusteo del I secolo a.C., dichiara al verso 361 dell’Epistola ai Pisoni “poesia ut pictura”, per dire che “la poesia è come un quadro” o “un quadro è come una poesia”. Ad Orazio si richiama il Parini, per il quale la poesia è “dipingere in versi le cose”.

Il rapporto tra le arti trova uno straordinario sviluppo nella seconda metà dell’Ottocento.

Baudelaire, il padre del Simbolismo francese, in Corrispondenze dice: “E’ un tempio la Natura…. la attraversa l’uomo/ tra foreste di simboli dagli occhi/ familiari. I profumi e i colori/ e i suoni si rispondono come echi/ lunghi che di lontano si confondono/in unità profonda e tenebrosa,/vasta come la notte e il chiarore.”

Baudelaire

Paul Verlaine in Art Poetique scrive: “Musica prima di tutto… e tutto il resto è letteratura”.

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                                                                                                         Paul Verlaine

Poesia, pittura, musica talora coesistono nello stesso artista. Una testimonianza letteraria in tal senso è La Scapigliatura, movimento artistico sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, in particolare a Milano, in cui il poeta era anche pittore, come Emilio Praga, autore di Tavolozza e Penombre, o musicista, come Arrigo Boito, autore dell’opera in musica Mefistofele e librettista delle opere verdiane Otello e Falstaff.

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                                                                                                               Arrigo Boito

Rivoluzionario è il Futurismo nella prima metà del XX secolo, che esalta il movimento, la velocità, rifiutando la staticità, il passatismo. Il linguaggio diviene un palcoscenico di impulsi, i segni son trattati alla stregua di acrobati che esibiscono la destrezza e la velocità con cui si produce la sorpresa, destabilizzando i generi e la comunicazione e contrapponendo pratiche artistiche minori all’arte da museo. L’esperienza artistica si condensa nell’accostamento imprevisto di elementi dinamizzati e il linguaggio si fa erogatore di sensibilità elettrizzata. Le formule “Parole in libertà” e “Immaginazione senza fili” esprimono lo scardinamento della struttura logico-sintattica. Per Eugenio Montale la poesia è “parole in musica”.

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                                                                                                         Eugenio Montale

 Il rapporto tra musica e pittura è analizzato in particolare dal pittore russo V. Kandinskij, padre dell’astrattismo, il quale, laureato in giurisprudenza e docente di diritto, a trent’anni viene affascinato da un quadro di Monet e si dedicherà alla pittura. Studia musica e suona il violino. Elabora una teoria artistica che, partendo dall’analogia tra suono e colore, giunge a prospettare un’opera d’arte sintetica, fondata organicamente su tutte le arti. Infatti il tratto più affascinante di questo artista è la compenetrazione consapevole e voluta tra le varie forme d’arte, influenzato anche da Wagner, che considera poesia, pittura e musica, componenti di un unicum espressivo. Kandinskij è pittura e musica, ma anche poesia.

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                                                                                                              V. Kandinskij

Nell’opera “Lo spirituale nell’arte” paragona i colori a strumenti musicali: il giallo, dotato di follia ricca di vitalità, viene paragonato al suono della tromba; il rosso, che è caldo, vivo, irrequieto, al suono di una tuba; il verde, che è mobilità in assoluta quiete, ai suoni di un violino; il blu, che è il colore del cielo, è profondo ed è associato al suono del violoncello. Suggestiva e motivo di riflessione è la sua poesia “Vuoto” : “Sinistra, in alto nell’angolo, un puntolino. Destra, nell’angolo in basso, altro puntolino. E al centro niente di niente. E niente di niente è tanto, tantissimo. In ogni caso assai più di qualcosa”. Interessanti sono i versi del cantautore ligure Fabrizio De Andrè, che sottolineano il rapporto tra poesia e musica “La poesia è musica dell’anima… Tutto possiede in sé della poesia. I poeti altro non sono che dei musicisti che suonano le melodie che provengono dal cuore, con strumenti diversi da quelli convenzionali… Uomini che sanno trarre dalle cose un significato profondo, un afflato sensibile solo a pochi, non percepibile da tutti e lo trasformano in parole… Alchimisti dell’anima Per me poesia è sintesi di pittura e musica, di immagini e suoni attraverso il pennello strumento della parola. E’ pittura, perché attraverso la descrizione fa vedere con l’immaginazione le cose; è musica, perché attraverso la recitazione è suono, ritmo, armonia o disarmonia. Oggi sempre più frequenti sono i convegni e gli spettacoli il cui tema sono le affinità e la contaminazione delle arti. Poesia, pittura e musica sono generi diversi nel “modus comunicandi”, nello strumento della comunicazione, ma accomunati dalla “vis sentiendi”, dalla forza del sentire, impulso essenziale della creatività artistica.

ATMOSFERE INUSUALI E COINVOLGENTI

Recensione recital del 9 gennaio 2016 presso il Teatro Comunale di Ferrara

Mara Paci, Soprano

Salvatore Margarone, pianoforte

Recensione di Federico ScatamburloDSC_2185.JPG

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Comunicato Stampa Teatro Comunale di Ferrara

Sabato 9 gennaio, ore 17 – Ridotto del Teatro 
 
Salotto Incanto
Appuntamento a cura del Circolo Frescobaldi Amici della Musica, sabato 9 gennaio alle 17 al Ridotto del Teatro.  La popolare soprano cittadina Mara Paci e il pianista e musicologo Salvatore Margarone proporranno al pubblico un pomeriggio vocale all’insegna della ricchezza culturale e varietà d’ascolto: romanze da camera di Tosti, arie tratte da opere di Ponchielli e di altri autori dell’Ottocento italiano, e un consistente nucleo di Lieder di Schubert, Liszt, Ciakovsky, Strauss e Wagner, quest’ultimi individuati come tributo all’imminente rappresentazione di “Tristan und Isolde”, prevista al Comunale il 14 e 17 gennaio. Un programma che riflette pienamente l’eclettismo dei due esecutori: Mara Paci ha studiato col baritono Paolo Coni e da anni alterna attività solista in campo cameristico e operistico. Salvatore Margarone, catanese di nascita, è organista, compositore e pianista specializzato nel repertorio liederistico Negli ultimi anni si è occupato di musicologia, pubblicando tra gli altri la monografia “Richard Strauss, uomo e musicista del suo tempo”. Attualmente è impegnato nella stesura del nuovo volume “Il Melodramma” dalle origini ai giorni nostri, ed una biografia su Sergej Rachmaninoff e la scuola russa.
Ingresso libero.

InCanto Chopin: il nuovo spettacolo teatrale ispirato al “Poeta del pianoforte”.

 

Tavola pittorica n° 1 Il segreto di Chopin (Copertina)

By Salvatore Margarone

 

Come è noto Fryderyk Chopin (1810-1849) ha un posto indiscusso tra i compositori che hanno fatto la Storia della Musica.

Nulla di più vero, infatti i suoi componimenti fanno parte dei programmi di sala dei più grandi pianisti che si ascoltano in giro per il mondo; Ballate, Notturni, Preludi, Scherzi, Sonate, Valzer e Mazurche risuonano dalle corde di tutti i pianoforti ancora oggi, ma non solo, le sue musiche sono state utilizzate per colonne sonore cinematografiche, spot pubblicitari e quant’altro, tanto che chiunque oggi riconosce le delicatissime note del suo Notturno op.9 n°2.

Facendo un tour per l’Italia, questa estate, per ascoltare concerti, opere, ecc…, ci si è imbattuti in uno spettacolo nuovo ed accattivante, mai banale e di sicuro interesse, non solo storico musicale, ma anche e soprattutto letterario.

“InCanto Chopin” è il titolo del recital ispirato al grande “virtuoso del pianoforte”, per voci recitanti, soli e pianoforte che,  incuriosisce già per il titolo, ed ha visto la sua prima messa in scena a Pagani (SA) il 29 luglio scorso.

Il recital, che prende spunto dal romanzo ancora inedito “Il segreto di Chopin” dello scrittore veneto-campano Luciano Varnadi Ceriello, nasce dall’idea dello stesso autore di mettere dei componimenti letterari sulle melodie dei 21 Notturni di Chopin (19, più i due postumi), creandone così delle canzoni.

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Luciano Vanardi Ceriello

Lo scenario si apre con una donna che, vagando per strada senza una meta, entra in un teatro,  e si trova coinvolta in uno spettacolo onirico sulla figura del compositore polacco F. Chopin il quale racconta, sotto forma di canzoni, alcuni ricordi della sua esistenza terrena.

Così, all’interno delle canzoni proposte, vengono rievocate le esperienze che più hanno segnato la vita del “Poeta del Pianoforte”, le fate ed i maghi del suo immaginario, giostrai, immagini familiari (la madre del pianista), vivaci pantomime e personaggi sia canori (Farinelli) che non (Clochard), i quali, tutti insieme, concorrono a creare un’Opera musicale di carattere storico-biografico unica al mondo nel suo genere.

Il progetto si allarga anche al campo dell’arte figurativa, infatti completano la scenografia del recital un’esposizione di tavole pittoriche a tema (Acrilico su Cementite) della pittrice campana Amelia Musella che rievocano le immagini dei personaggi presenti nei testi dei brani.

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Amelia Musella

Al termine dell’esibizione intervistando l’autore dei testi e ideatore dell’intero spettacolo, Luciano Varnadi Ceriello, a rappresentazione appena terminata, densa di pathos e di suggestioni che hanno lasciato sbalorditi gli spettatori, l’autore a sottolineato che ciò a cui si era assistito era una riduzione dello spettacolo teatrale vero e proprio che porta il titolo “Ho sognato Chopin”, composto da tutti i 21 Notturni di Chopin; infatti, il Recital della serata era costituito da soli 8 Notturni cantati.

Tavola pittorica N° 8 Farinelli

Tavola pittorica N° 3 La giostra di Julien

L’autore ha risposto ad alcune domande poste dai giornalisti presenti rispondendo  con queste parole: “ Sono felice che questa serata abbia preso vita, dopo anni di duro lavoro vedo realizzare  un mio sogno!” … “ Ho già ricevuto conferme sulla valenza artistica di questa mia opera ricevendo meriti a livello nazionale ed internazionale tra cui: Primo posto al Premio Internazionale “Voci” di Abano Terme (PD), Premio Speciale della Giuria al 58° Premio Nazionale Vallecorsi (PS), Menzione Speciale con medaglia del Presidente al Festival Internazionale Teatrale per autori, registi e attori “TEATRANDO” Roma, Terzo Premio al brano “Farinelli”, ivi contenuto, al Concorso Internazionale di Poesia “Il valore di un passo” Casale Monferrato (AL), e diversi altri riconoscimenti, che mi spingono oggi, ancor di più, a credere in questo lavoro…”

Ultimamente si è potuto apprezzare l’ars poetica di Luciano Varnadi Ceriello anche nella scrittura dei testi degli ultimi due movimenti (il quarto e il quinto) della “Sinfonia Abellana” per soli, coro e grande orchestra sinfonica, del compositore Oderigi Lusi che ha visto la sua prima nazionale il 6 settembre 2015 presso l’Anfiteatro Romano di Avella.

Altra notizia che si apprende ad oggi è che, anche oltreoceano, in Canada, sono già al lavoro alcuni collaboratori dello scrittore, tra cui citiamo la pianista, compositrice e arrangiatrice Edith Covach, di origini argentine, già collaboratrice di noti musicisti americani e canadesi, la quale sta curando gli arrangiamenti per archi, voci soliste e coro per tutti i Notturni a cui sono ispirati sia il romanzo “Il segreto di Chopin” che la relativa opera teatrale.

La dott.ssa Eleonora Ceriello, interprete parlamentare presso il governo canadese, nonché cugina dell’autore, (dopo aver curato l’editing della versione italiana del romanzo), ha attualmente dato il via ai lavori, volti a creare una trascrizione dell’Opera teatrale e del romanzo, “Il segreto di Chopin”, in lingua francese.

 

Questa è la “Bella Italia”, quella che piace al pubblico, ricca di personalità che si mettono in gioco osando ma mai scadendo nella banalità.

Si augura un futuro luminoso a questo artista ed al suo spettacolo, che possa avere fortuna oltralpe, dato che merita sicuramente di essere conosciuto ed apprezzato da un pubblico più ampio.

Sergej Rachmaninoff: il “Romanticismo” intramontabile della sua musica.

Nuovo articolo pubblicato stamattina a New York….

buona lettura! 🙂

http://www.lideamagazine.com/sergej-rachmaninoff-il-romanticismo-intramontabile-della-sua-musica/